Sabina Lops

Sabina Lops

DOTT. ANTONIO DI MARE

Che cos’è il cinema? Il cinema siamo noi, il cinema è la ripetizione o riproposizione, sarebbe meglio dire la sottrazione di tutto ciò che ci circonda, che si può vedere e percepire; ed attraverso la pellicola che sintetizzano in filigrana tutti gli elementi percettivi, i grandi registi seguendo scrupolose alchimie, pari a quelle di sapienti Mastri Artigiani medievali, riescono a creare opere d’arte. Queste ultime sono quanto di più intensivo ci si possa aspettare da una espressione artistica, proprio per la loro qualità di rapporto inverso, gioco a ritroso, il cinema è autentico, proprio nel momento stesso in cui, lo si riesce a pensare come evento destinato a finire, ad esaurirsi, a svanire. Il lavoro offerto in quest’occasione dall’artista Sabina Lops, consente di abbracciare tutta una riflessione ad ampio respiro, sulle grandi dive del cinema muto, fino ad arrivare agli ultimi film in technicolor, passando attraverso l’epoca di transizione dell’avvento del sonoro. I volti, le movenze, gli sguardi di grandissime attrici come: Rita Hayworth, la Divina Greta Garbo, Marylin Monroe, l’impenetrabile bellezza androgina di Marlene Dietrich; ma anche di enormi interpreti italiane entrate di diritto nell’Olimpo del cinema come: Anna Magnani, Silvana Mangano, Sophia Loren. Tutte donne ritratte in atteggiamenti o posture, che potessero donare ancora quel senso, quel momento di squarcio cinematografico, decontestualizzando dalla scena filmica un’ attimo di iperrealismo, in cui un singolo gesto, un solo ed unico movimento, fuoriesce dalla finzione cinematografica consegnandosi direttamente all’Eternità. La fisicità dei corpi è percepibile proprio in questo estremo tentativo di fuoriuscita, di distaccamento dalla tela, sua originaria dimensione, verso un’incontro corporale, un congelamento espressivo, non asettico e immobile, ma capace di donare ancora forza e pulsione tutta umana. Cinema e volti al femminile, perché il cinema è enigma, e l’enigma, il mistero, l’indecifrabile ha di sicuro un volto femminile. Parafrasando il grande filosofo francese Gilles Deleuze, autore di due imponenti volumi sul cinema, si evince che proprio attraverso gli occhi della Garbo, questi occhi lontani, glaciali, aristocratici, profondi, è possibile riflettere sul senso stesso dell’intera arte cinematografica; dunque una “voluta” indecifrabilità affidata agli sfingei volti femminili, che come antiche vestali, in silenzio, in segreto custodiscono gelosamente arcani segreti. Questa esposizione pone essenzialmente degli spazi aperti di interpretazione, volutamente ambigui, capaci di trasferire più di un solo ed unico messaggio al visitatore. Unica eccezione alla linea guida “al femminile” della mostra è rappresentata dall’omaggio dell’artista all’ aristocratico clochard Charlot, interpretato da uno dei più grandi geni indiscussi della storia del cinema, Charles Spencer Chaplin. Dedicandogli due quadri, uno con il piccolo Jackie Coogan, tratto dal film “Il monello”, e un altro con il solo Charlot, tratto da “La febbre dell’oro”. E chissà che proprio le parole del grande Chaplin pronunciate nella celebre sequenza conclusiva de “Il Grande Dittatore”, possano rappresentare ancora una potente critica alle istituzioni e alla crisi umana da cui oggi sembra abbastanza difficile uscire.

PROF. GIOVANNI LEMBO
Velate memorie

In questa serie di dipinti, l’artista Sabina Lops, ha voluto percorrere un viaggio iconografico storico, nel tentativo di ridare vita a tanti volti del passato, di raccontarne la loro esistenza per non permettere che la loro identità vada perduta. Sono “Stelle” del cinema. Dive delle proiezioni cinematografiche del cinema muto del primo novecento, fino all’avvento del sonoro ed alle figure che più hanno contribuito a formarne la storia. La tela viene lavorata, con l’uso di materiali sabbiosi, polveri di marmo, carta, gesso, in netta contrapposizione con la perfezione che queste stesse “dive” rappresentano. Tutto ciò conferisce al dipinto un aspetto materico e consumato, per avvicinare il fruitore ad una maggiore indagine emotiva. Intime introspezioni che trapelano dai tratti e dall’atteggiamento delle figure, che spaziano dalla rigorosa analisi dell’interiorità del ritratto rinascimentale, all’espressività inquieta dell’anima novecentesca. Frasi indecifrabili, non sempre utilizzate, sembrano raccontare storie private che nessuno mai svelerà. Secondo una rivoluzionaria definizione di Socrate, l’uomo è la sua anima; il corpo è come lo strumento di cui essa si avvale. Tutte queste donne sembrano aver interpretato totalmente questo pensiero, sono state infatti primedonne celeberrime e idolatrate, che attraverso il loro corpo, non solo hanno segnato un’epoca e la storia del cinema, ma hanno dato un’impronta alla moda, al gusto, all’immagine femminile di intere generazioni. Celebri in passato, spesso cadute nell’oblio. Più note che conosciute. Nessuna è mai stata vecchia e a loro, pioniere di questo strano mestiere, si sono poi ispirate tutte le altre. Quante sono state martiri, ricche e privilegiate, più spesso infelici o “persesi” in una vita dall’apparenza ideale. In quest’universo femminile un omaggio particolare viene poi dedicato all’icona maschile del cinema muto: Charlie Chaplin con il piccolo Jackie Coogan. Indagando e rileggendo queste figure del passato nel presente, l’artista Sabina Lops induce a riscoprire il fascino del tempo, il fascino di una memoria velata, donando per sempre a queste anime, l’immortalità.

ROSI RANERI – CURATRICE D’ARTE

Per Sabina Lops ogni volto ha una storia da raccontare. Storie intrise di memorie, ricordi, sensazioni vissute che riaffiorano sulla tela. Dalla fisionomia dei protagonisti delle sue opere si intuisce ciò che accade al personaggio in quel dato istante. L’artista immortala attraverso il pennello momenti cinematografici salienti. Spesso i volti sui quali si sofferma appartengono a bambini estrapolati da celebri pellicole che, con la loro “presenza”, ci riportano in quei momenti perduti e rivisitabili attraverso il film, si avverte l’affiorare di una memoria involontaria. Il candore della loro pelle risalta su calde terre utilizzate come sfondo, loro vedono il mondo con l’innocenza e la meraviglia ancora sconosciute all’età adulta, dai loro occhi si può leggere la sensibilità, la commozione.

BEPPE PALOMBA – CRITICO D’ARTE

Infinita tenerezza in questi ritratti di bambini e ritratti di sguardi come interrogativi che sottendono una richiesta d’amore, una domanda di affetto dietro un velo di malinconia. Grande deve essere la sensibilità umana, oltre che pittorica, di un’artista che sa così bene raccontare sogni e bisogni d’amore dell’infanzia”.
Parlare della tecnica dell’artista Sabina Lops, è riduttivo….La sua straordinarietà consiste nel saper rappresentare con uno sguardo, una espressione impercettibile, desideri, gioie,dolori in questi ritratti. Impaeggiabile l’interpretazione del senso di attesa, lo sguardo tra la speranza ed il pianto… che si legge in queste splendide opere.

PROF.SSA CANDIDA CICCONE

Sabina Lops con una sua personale visione del mondo e della condizione umana, ritrae volti. Entra così nel privato, attestandosi su storie che nessuno mai racconterà, evidenti storie di abbandono, di rifiuto. L’artista, attraverso i suoi ritratti, ci racconta che quando si compie il male non ci sono mai testimoni rilevatori. Solo l’ artista, il medium, il mistico, il cosiddetto folle, il bambino, il poeta, con la loro sensibilità innocente, captano con un particolare terzo occhio il mistero e diventano testimoni dell’orrore ……
Un silenzioso dossier l’arte di Sabina, sugli effetti del male sui piccoli e sulle donne, sia sugli esseri più fragili come i vecchi.
Gente inutile al “Potere”. Come in un schedario di una vecchia centrale di polizia, l’autrice ci mostra volti, che potrebbero appartenere a sopravvissuti, esuli, esiliati, deportati, desaparecidos, immigrati o più semplicemente nostri vicini di casa, i cui tratti psico-somatici portano i segni dell’innocenza violata, della paura dello smarrimento, di cui nessuno si rende più conto. Il tutto descritto con i toni del grigio, un vero e proprio scatto nella scala cromatica, una sorta di non colore, un ibrido che supera perfino il freddo nero che, nella nostra cultura rappresenta il lutto ma anche il colore ambivalente della terra, fonte di ogni vita, e nel contempo sepolcro.
La scelta di ritrarre volti è estremamente complessa, tant’è che tutto il cammino dell’arte non solo quella Occidentale ne è permeato a partire dal momento in cui si decide artisticamente di indagare il rapporto Anima – Volto.
Grazie alla fisiognomica, la scienza che si propone di studiare l’indole di un uomo dal suo aspetto, si è fornito un valido aiuto sia alla comprensione dell’arte che alla critica d’arte. L’estetica -a sua volta- debitrice della Filosofia e della Psicologia del “profondo”, dono della Psicoanalisi, ci ha indicato come l’uomo abbia voluto interpretare, comunicare e definire la propria visione del mondo.
Andando indietro nel tempo, in riferimento alla rappresentazione della persona umana, incontriamo l’uomo- eroe del mondo greco che non doveva avere connotati psicologici personali, bensì quelli ispirati ai canoni aulici ed esprimenti l’etica. La forma plastica dell’arte classica si rifaceva -come è noto- al principio aristotelico che distingueva tra pathòs (emozione transitoria) ed ethòs ( fonte di educazione permanente).
L’arte classica romana invece, sia nella statuaria a figura intera, che in quella a mezzobusto rappresenterà – come pure è noto- l’esatto contrario di quella greca. Infatti, Roma predilesse nella statuaria e nella pittura il dato fortemente espressivo che i suoi artisti avevano colto precedentemente, già nella ritrattistica appartenente alla creazione di monete, medaglie commemorative, armi.
L’uomo dalla profonda complessità interiore, in cui si manifesta lo spirito del viaggio nel profondo individuale e collettivo, da cui deriva anche la nostra stessa visione dell’invisibile, si può dire che nasca nel ‘700 quando si fa strada “il personaggio” che desunto da una personalità psicologica e narrativa scavalca sia la Maschera della Commedia dell’Arte e, nel contempo, l’eroe emblematico della tragedia classica seicentesca. Da non dimenticare che in latino la parola maschera significa “Persona”, “Essere oltre”.
La storia della maschera, veramente, meriterebbe una trattazione a parte ma possiamo solo citarla come strumento essenziale del teatro, per il quale essa è “strumento attraverso cui è possibile apparire”. Protagonista delle tradizioni folkloriche e magico-rituali di ogni popolo, la Maschera è immagine emblematica del ”doppio” che è in noi di cui Antonin Artaud è stato magico esegeta. Nel ‘900 quando Freud pubblica il suo saggio “L’interpretazione dei sogni” si intuisce il perchè la Fisiognomica, con i suoi limiti,può convergere quasi naturalmente nella psicologia del comportamento. E ciò al fine di decifrare un volto e la sua interiorità.
Il cammino dell’arte del ritratto è lungo: in Occidente è molto diversificato, in Cina è piuttosto lirico e naturalistico, nell’Islam diventa iconoclasta, nel mondo indiano è plastico e decorativo, nel mondo russo e pan-slavo è trascendente e spiritualistico. Nel corso generale dell’evoluzione culturale del genere umano, la credenza primitiva della “magia dell’immagine” si è attestata nelle sue molteplici valenze sino ai nostri giorni. Tant’è che il ritratto ha assunto nelle varie epoche storiche molteplici aspetti per arrivare sino ad oggi nelle società edonistiche, nelle quali “vedere” coincide con “sapere”. Mentre il “consumo dello sguardo” diventa il motore propulsore della moderna comunicazione di massa.
Se ne deduce che la fotografia abbia dato un contributo notevole alla storia dell’immagine della persona, al rapporto con la propria immagine, che non riguarda più soltanto la sfera individuale, ma rientra ormai nella fitta rete di relazioni sociali. Il volto non è più semplicemente una parte del corpo, ma assurge a principio narrante, il fotografo rivela con la luce la storia custodita in ogni volto.
Il ritratto viceversa nasce nel 1300 opera dei fratelli Van Eyck; e fa capo alla loro scoperta dell’olio di lino come legante per i pigmenti colorati. Precedentemente – come si sa- esistevano i ritratti su monete e medaglie rigorosamente di profilo e a prospettiva bidimensionale. Sarà il nostro Antonello da Messina ad approfondire la tecnica fiamminga, convertendo il ritratto stesso all’uso della posa “di tre quarti” evento che genera profondità dell’Essere, mentre l’ espressività del soggetto coinvolgerà, con più intensità emotiva, lo spettatore.
Nel periodo dell’Umanesimo, Gentile da Fabriano, Pisanello e altri eminenti artisti, produrranno ritratti ad olio con velature di tempera all’uovo, il genio di Leonardo lo ispirerà a inventare e introdurre nel ritratto la Prospettiva Aerea ed è a lui che si deve la commistione tra scienza e arte. Fanno testo i suoi straordinari studi anatomici.
Nel 1500, i Bellini useranno la tela e non più le tavole di legno come supporto, Raffaello creerà una ritrattistica idealizzante e sublime, Durer, oltralpe, presenterà il ritratto in clima drammatico, i protagonisti del nostro Rinascimento, con originalità, proporranno ” Il ritratto in veste di…” e “ Il ritratto allegorico”. Per ciò che concerne la “querelle” nata nel ‘500 tra “il ritrarre” e” l’imitare” si può ricorrere al trattato del Gallucci, il “Metodo per le passioni”, progetto generale di retorica sulla significazione non verbale.
Il grande Tiziano opererà per realizzare i suoi ritratti una sintesi del colore, riducendo la sua tavolozza a 5 elementi per mezzo dei quali raffigurerà re e grandi personaggi della storia. Caravaggio porrà in discussione la luce e il suo dramma, donandoci ritratti dal vero naturale, descrivendo con impeto i moti dell’animo umano, Rubens e Van Eyck, il primo con florida pittoricità e il secondo con realismo attento al naturale e all’introspezione psicologica , ci tramanderanno i loro capolavori.
Bernini userà il verosimile al posto del vero, come il Barocco insegna, con vera tecnica teatrale, El Greco e Zurbaran porteranno alle estreme conseguenze e con le dovute differenze, la drammaticità della condizione umana, mentre Velazquez proporrà ritratti meravigliosi velati di malinconia.
Vermeer, nelle Fiandre, condurrà l’osservatore in un viaggio “ dentro il quadro” per carpirne ogni minimo dettaglio, Rembrandt, viceversa, analizzerà nel ritratto la struttura del colore e la sensibilità cromatica delle luci e delle ombre; mentre i soggetti dei Tiepolo saranno sontuosi, a fronte di Pietro Longhi che sarà sobrio e acuto: Rosalba Carriera coi suoi splendidi ritratti a pastello ci narrerà di un ritorno al classico. Goya il più regale artista spagnolo primeggerà per la sua visione apocalittica del mondo, per sensibilità sociale ed eleganza, mentre nel 1840 i Macchiaioli si soffermeranno sull’effetto della luce sul colore e la rivoluzione Impressionista proseguirà su questa scia.
Nel campo religioso, poi, l’Icona segnerà un capitolo notevole per ciò che concerne l’alta spiritualità conquistata dall’animo umano. Il Volto di Dio, dal nome impronunciabile e dal volto irrappresentabile nel Vecchio Testamento, verrà rivelato sulla Croce dal Figlio, non è a dire, per l’eternità. Il Nuovo Testamento offrirà, non solo ai monaci pittori dell’Oriente bizantino ma a tutta l’arte universale, una fonte inesauribile di ispirazione tra Divino e Umano.
La firma più eminente della nostra trattatistica contemporanea, inerente al tema del Volto e dell’Anima sarà data da Flavio Caroli con la “Storia della Fisiognomica. Arte e Psicologia da Leonardo a Freud”,in uno col suo saggio “Il gran teatro del mondo. L’anima e il Volto del ‘700”. Un’altra prestigiosa firma della saggistica italiana in merito all’argomento trattato in questa sede è quella di A. Pontremoli con il suo libro “Volto e affetti nel pensiero filosofico e nell’arte”.
Zelig di Woody Allen, Narciso, Dorian Gray, in uno coi volti surreali di De Chirico, Magritte e Dalì porranno, invece, il quesito della Metamorfosi, come nel caso di una donna di Amiens che, in seguito a un’aggressione da parte di un cane, affronta il trapianto del volto e qui ci potremmo collegare al successo che nella nostra società riscuote la chirurgia plastica,senza disattendere l’ inquietante domanda sulla perdita dell’identità e l’apposizione della “doppia personalità” lesiva dell’identità stessa che pone alla Giurisprudenza enormi quesiti.
Con questo modesto “iter” storico sull’arte, sembra quasi che io abbia “dimenticato” Sabina Lops. Non è così: è la sua pittura la fonte della mia ispirazione. Sta il fatto, a mio avviso, che questa pittrice non avrebbe mai potuto raggiungere una delineazione del suo operare nello specifico campo dell’arte, fattispecie inclusa, ove non avesse introitato e connotato nel suo spirito la sensibilità del sapere.
Le tele di Sabina hanno prevalentemente un formato 100×80 e sono dipinte con tecnica mista ad olio. Ricordano, per analogia, le Tavolette di Al- Fayyum, l’oasi egizia a pochi chilometri da Cairo dove nel 1888 furono trovate dall’esumatore inglese W. M Flinders Patrie centinaia di mummie in un cimitero risalente al periodo romano cristiano del I -II sec. d.C. Le mummie ospitate nel sepolcreto portavano, poggiate all’altezza del volto, delle tavolette dipinte su legno prezioso o quadrati di tela di lino anch’essi dipinti e raffiguranti, entrambi, le sembianze del defunto. Queste opere di incomparabile bellezza sono visibili al Museo Egizio del Cairo. Va detto, inoltre, che il loro significato rituale era quello di assicurare al morto un viso nell’Aldilà, identico a quello che aveva in vita.
La stessa operazione, in chiave ideale e fantastica, a nostro avviso, è elaborata dalla nostra Sabina che salva dall’orrore e dall’oltraggio i Volti delle persone ritratte, perchè la loro identità non vada definitivamente perduta, dissolta, cancellata dal tempo, ma riedificata. Nelle tele dell’artista canosina, dalla cultura permeata di accenti magno-greci, ritorna l’anelito che sostanzia la cultura classica, ispirato alla conservazione della Memoria, la quale non rappresenta la mera conservazione del dato eroico bensì, come dice Aristotele è trasmissione di un pensiero, di un sentimento ereditato dall’ethòs . Anche noi moderni possiamo vantarci delle nostre icone, i volti incappucciati del Ku Klux Klan, quelli a volto scoperto dei torturatori di Guantanamo o dei neo nazisti violatori di tombe dei cimiteri ebraici, oppure dei dissacratori dei monumenti alla Resistenza, uniti a quelli degli stupratori, singoli o di gruppo. E’ quanto dire.

PROF. DARIO EVOLA

………Se l’immagine pervasiva prodotta dal mondo rischia di rendere invisibile il mondo stesso e l’uomo, svuotando il pensiero, l’artista indica nuove vie e si pone come “testimone oculista” nel senso che cerca una via di correzione nello sguardo. Dopo Auschwitz, dice Adorno, la poesia è un crimine. Di fatto, dopo l’esperienza della guerra tecnologica, l’arte “non è serena”, non serve a conciliare, si pone come rammento, come disordine del suo stato di artefatto. L’arte è testimonianza critica del reale. Le opere d’arte criticano il reale non riproducendolo, ma producendolo in una “forma” che esprime un contenuto come coscienza di un processo. La funzione dell’arte nella società moderna, assistita dalla tecnologia, assume una dimensione etica come testimonianza e come indicazione. Un’arte che non sia in grado di farsi testimonianza nel ricordo, incapace di conservare e usare la memoria, si riduce a mero intrattenimento “culinario”, o a provocazione fine a se stessa in una società dove tutto è provocazione. Gli artisti, hanno risposto all’appello per uno “sbarco di pace” e hanno proposto con tematiche differenti, una poetica universale come riflessione sull’assurdità della guerra, sul peccato assurdo dell’uomo e della sua cecità………….. Sabina Lops mostra lo sguardo atterrito di una bambina sorpresa nel cuore di una visione da incubo con gli occhi rivolti ad un altrove minaccioso e terrifico……………..

PROF. GIOVANNI LEMBO

I dipinti dell’artista Sabina Lops, sono improntati ad un verismo di sapore attuale, sono un esempio di pittura della verità, una pittura chiaramente leggibile per nitidezza di costruzione. La sua è una continua ricerca introspettiva, attraverso figure sospese tra materialità e sogno, nella bellezza ed unicità della loro fragilità. Spesso le sue opere sono ispirate da fotogrammi cinematografici, dove l’artista isola dalla pellicola alcune scene, per poi sceglierne con calma l’inquadratura ed il formato. A questo punto il frame è già diventato materia per la sua arte. L’immagine completamente decontestualizzata è rielaborata per coniugare il respiro con il silenzio, la densità dei suggerimenti con l’umile essenzialità delle cose. Un fermo immagine, a volte spiazzante, che ci permette di costruire inspiegabili storie. Di immediato fascino. Di inconsapevole fuga. Polo essenziale nei dipinti dell’artista Sabina Lops è il linguaggio degli occhi. Un linguaggio fatto di attesa, di proiezione in un tempo senza tempo. Lo sguardo è commento e sintesi, richiamo ed eco che si frantuma contro l’ignoto, pacatamente, senza rumore. L’artista scende nei meandri più segreti dell’anima al fine di cogliervi risonanze. Riesce a coniugare il respiro con il silenzio, la densità dei suggerimenti con l’umile essenzialità delle cose. La luce è pensata come medium attraverso cui dare plasticità ai soggetti, dietro i quali non si celano falsi intellettualismi . II suo obiettivo non è quello di esorcizzare un dato reale, ma semplicemente trascrivere un dato intimo e personale. Il dato figurativo è utilizzato con l’intento di facilitare la fruizione delle immagini e diviene strumento di sinergia tra chi dipinge e chiunque osserva. Quindi non un linguaggio intellettuale, ma un linguaggio diretto ed immediato che induce ad udire il respiro, ad assaporare le sensazioni, coinvolgendo lo spettatore che improvvisamente diviene partecipe dell’opera entrando nella sua atmosfera nostalgica.

PROF. DAVIDE LECCESE

Sergio Amatruda e Sabina Lops, marito e moglie, mettono in mostra le loro opere pittoriche nello spazio espositivo di Palazzo Dogana, sede istituzionale dell’Amministrazione Provinciale di Foggia. Non è la solita esposizione; almeno non lo è per la novità della simbiosi artistica, pur nella diversità di composizione pittorica, pur nell’originalità individuale del modo di avvicinarsi all’impalcatura delle immagini. Ma sono marito e moglie, padre e madre che vivono in comunità familiare la passione autodidatta di confrontarsi con la voglia misteriosa di creare – o ricreare – spazi urbani (Sergio Amatruda) o volti (Sabina Lops), sagome a tutta scena di quell’umanità vissuta – famosa o sconosciuta – che ci attraversa la vita, siano luoghi di città siano soggetti umani. Non è vero che i pittori sono gelosi delle ragioni profonde che li spingono a metter colori su una tela; è vero, invece, che, quando ne parlano con chi è “fuori” della loro meravigliosa avventura, smozzicano parole, sintomo dell’impronunciabile mistero estetico che è in ognuno di noi, che lo si sappia o si faccia finta di non saperlo. Le case, le strade, le insegne dei quadri di Sergio Amatruda, lo stesso color terra macchiata e imbrunita dalla notte e arruffata dal via vai frenetico di una vita senza il respiro della sempre agognata pace interiore nel guscio caldo e affettuoso della “casa”, ci portano a un groviglio urbano tanto crudo da essere indigeribile o tanto cotto da essere il residuo di un pasto, preparato per il primo che passa nell’avventura culturale di cliché. Eppure è viva la città della notte, silenziosamente parlante a chi si pone davanti a questi quadri con la voglia di ascoltarli e chiede di non fuggire dalla realtà freddamente perfetta che ci circonda ma di riempirla di anima onesta e pulita di chi ha voglia di tornare a casa. Entri in casa e, nello specchio degli occhi dei tuoi figli, scorgi a tratti il mondo che vorresti oppure – angosciato – quel mondo “altro”, tutto dentro, della sofferenza per lo spreco di lealtà, per l’abbandono del rispetto umano, per il consumo – attraverso la notorietà – della persona normale che eravamo prima che ci usasse il mercato. E’ una guerra continua; guerre dichiarate e guerre bugiarde, camuffate dalla diceria di una futura pace contro i presenti nemici. Le braccia del soldato, strette a proteggere una giovane vittima, sono le stesse che sono costrette ad accollarsi, con le armi, l’angoscia della morte. E gli occhi: nei volti di Sabina Lops, se a tratti si spalancano per gridare la paura o la tristezza, sempre guardano o voi o lontano per scrutare la pulizia che c’è nel mondo, perché c’è e non lo vogliono far sapere (quelli che muovono i rotori delle città e rimescolano artatamente le nostre coscienze) e quell’orizzonte che si rifiuta di essere troppo corto quanto lo è ogni soffocante barriera egoistica dei soliti padroni del forziere della buona esistenza. Siamo andati forse di là dalle tele ma è giusto così: Sabina e Sergio non hanno alcuna presunzione di rimanere attaccati alla superficie del muro che oggi sorregge le loro opere perché, questo sì, desiderano che i loro quadri diventino fantasia benefica da esportare tra le strade della città e nelle pieghe della mente e del cuore di chiunque volontariamente, o per caso, verrà in questo spazio espositivo. Sarà un furto consentito, un’appropriazione non indebita. Se questo avverrà, secondo il desiderio dei due artisti, alla chiusura della mostra i quadri trasuderanno della passione positiva di vita di cui tutti, consapevoli o non consapevoli, siamo testimoni obbligati.